Vorrei proporre alcune personali considerazioni ai miei lettori condividendo questo post anche con chi segue il noto sito www.manicomiodivolterra.it che raccoglie racconti, testimonianze e documentazioni relative alla nascita e alla storia di uno dei manicomi più grandi di Italia. Pubblico qui la prima parte dove descrivo la “mia” scoperta della malattia mentale, esponendo in un post successivo all’interno del sito dedicato al manicomio di Volterra, le considerazioni finali relative ai processi di cura che avvenivano nel manicomio.
La realtà della non realtà della follia mi ha sempre accompagnato, i miei genitori sono stati entrambi infermieri psichiatrici al Manicomio di Volterra, uno dei più grandi in Italia. Il primo padiglione destinato ad ospitare gli alienati fu istituito nel 1888 all’interno dell’ex convento francescano di San Girolamo al Velloso sotto la spinta della Provincia di Pisa per ragioni economiche (a Volterra vigeva una tassazione agevolata che riduceva il costo di mantenimento dell’internato), oltre che per allontanare i lunatici dalle città più popolose collocandoli a Volterra più isolata. Successivamente la struttura si espanse con officine, servizi e una grande azienda agraria, sviluppandosi in un vero e proprio nosocomio, convenzionato non solo con la provincia di Pisa ma anche con quelle limitrofe e diventando uno dei più grandi manicomi in Italia. Questa crescita rese il San Girolamo totalmente indipendente dal resto della città, era dotato di un proprio acquedotto, un impianto di illuminazione e si era giunti al punto tale da creare una propria moneta interna al fine di evitare al massimo i contatti con l’esterno. Il suo sviluppo termina nel 1935 con la creazione, in aggiunta ai precedenti, dei padiglioni Charcot e Ferri, quest’ultimo a carattere giudiziario. Nonostante il lavoro svolto dal direttore Luigi Scabia dal 1900 al 1934 mirato principalmente sull’ergoterapia, la terapia del lavoro, e alla limitazione dei metodi di contenzione, all’interno del manicomio si continuò a respirare un’aria di reclusione carceraria fino al 1963, anno in cui entrò in contatto con il movimento antipsichiatrico. Il Prof. Scabia andò in pensione nel 1934 e morì di lì a poco, decidendo di farsi seppellire nel cimitero dei pazzi insieme ai cadaveri non reclamati dalle famiglie.
Mio padre Silvano Signorini, ha iniziato a lavorare all’ospedale psichiatrico nel 1957 continuando fino al 1994 mentre mia madre Elisa di Girolamo fu infermiera dal 1968 al 1996. All’epoca mio padre entrò come trattorista nell’azienda agricola dell’ospedale in seguito, dopo un breve corso, fu inserito a lavorare nei reparti come “guardia”.
Le “guardie” o “sorveglianti” eseguivano quanto gli veniva detto dai primari psichiatri, il confine fra follia e realtà è molto labile e mio padre mi ha sempre detto che spesso non riusciva a capire la modalità di trattamento della malattia mentale basata sulla contenzione a letto, l’elettroshock e i bagni freddi. Successivamente furono inseriti i primi farmaci antipsicotici in via sperimentale, sotto la direzione sanitaria di Gino Simonini nel 1955 furono introdotte le nuove terapie basate sugli psicofarmaci, risale al 1950 infatti la sintesi della clorpromazina, molecola utilizzata in anestesia ma che evidenzierà proprietà antipsicotiche nel 1953, portando alla sintesi di analoghi principi attivi che andranno a costituire una intera classe di farmaci definiti “neurolettici”.
Il personale non era formato e in seguito furono fatti dei corsi per acquisire il titolo di infermiere psichiatrico, ma prima quasi tutti dovettero sostenere l’esame per la licenza di terza media che né mio padre né mia madre avevano conseguito in precedenza. Gli unici strumenti relazionali e in dotazione al personale erano il buon senso e l’umanità. Il lavoro consisteva soprattutto nella contenzione a letto per quelli pericolosi, la cura personale e alimentare. Le camere avevano spesse inferiate simili a quelle delle carceri.
All’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra, infatti, fino al 1963 veniva applicata la legge n. 36 del 1904: “la struttura sanitaria e assistenziale era di tipo gerarchico, piramidale dove ognuno era responsabile delle proprie azioni solo nei confronti delle persone da cui dipendeva direttamente. Era il primario che distribuiva gli ordini a tutto lo staff: gli infermieri eseguivano gli ordini e i pazienti li subivano. Non c’era nessun tipo di rapporto tra lo staff tecnico e i pazienti che venivano strumentalizzati. Il clima era carcerario”. Le lettere che i pazienti scrivevano ai familiari non venivano mai consegnate alle famiglie, ma semplicemente raccolte all’interno delle cartelle cliniche. Dal 1963 si iniziarono i passi verso una riforma per arrestare il rigido regime che si era instaurato. Le necessità erano quelle di sensibilizzare il personale e stabilire delle regole di vita dei pazienti decise in modo comunitario in base alle singole situazioni. Dopo l’entrata in vigore della legge 180/78 vennero bloccati nuovi ingressi e i malati con una famiglia rientrarono a casa. Gli infermieri allora furono adibiti alla terapia farmacologica a domicilio.
Nel 1978 venne pubblicato il libro “Corrispondenza negata”, epistolario contenente tutte le lettere originali ed integrali scritte dai ricoverati e mai spedite alle famiglie. Molti erano i pazienti al suo interno con una storia assai bizzarra. Il più famoso tra tutti è sicuramente Fernando Nannetti, meglio noto con lo pseudonimo di N.O.F.4, nato a Roma il 31 dicembre 1927 e morto a Volterra il 24 novembre 1994. Una storia particolare quella di Fernando che si era dato come nome Oreste, una storia di negazione, la vita di un povero figlio indesiderato, da dimenticare, da cancellare. Ma proprio per questo è riuscito a lasciare una traccia indelebile incidendola sul muro del reparto dove era ricoverato, il Ferri, reparto penitenziario. Ha inciso sulle mura un’opera d’arte: un mastodontico e immenso “libro graffito”: lungo 180 metri per un’altezza media di due, il graffito venne realizzato utilizzando la fibbia del panciotto (che tutti i ricoverati indossavano) per incidere l’intonaco. Numerose cartoline, mai spedite e indirizzate a parenti immaginari, sono un altro tentativo di vincere le voragini di un’impensabile solitudine. Attraverso i suoi scritti e graffiti Nannetti scrisse la sua vera storia, la sua vera realtà.
Il suo lavoro fu osservato da un infermiere che incaricò un fotografo di fotografare quanto prodotto sulle pareti del reparto e tentò di trascrivere quanto era scolpito sull’intonaco come se stesse scrivendo su pagine di un libro. In questa dimensione, Oreste non era Oreste, bensì un “astronautico ingegnere minerario nel sistema mentale “, “santo della cellula fotoelettrica “, e si presentava con i nomi di Nanof, Nof, e soprattutto NOF4 . La sigla sta a significare “Nannetti Oreste Ferdinando”, “Nucleare Orientale Francese”, oppure “Nazioni Orientali Francesi”, mentre il “4” era il numero di matricola che gli era stato attribuito all’entrata nell’ospedale. Quante moltitudini può possedere al suo interno un uomo che si autodefinisce “Nazioni”? Come ingegnere minerario i suoi graffiti servono per accedere alle insondate profondità della psiche. In esso egli scrive che “il vetro le lamiere i metalli il legno le ossa dell’essere umano e animale e l’occhio e lo spirito si controllano attraverso il riflessivo fascio magnetico catotico; sono materie viventi le immagini che hanno una temperatura, e muoiono anche due volte”.
Ecco il “mio” Oreste non ha avuto la fortuna di avere una psichiatra illuminata, ha lottato contro la sua solitudine graffiando le mura che lo hanno tenuto rinchiuso per oltre trenta anni. Ma il suo graffito è considerato un capolavoro mondiale di Art Brut.
Completamente lasciati a sé stessi nella vita e anche nella morte, date le condizioni in cui versa il cimitero, e a cui non è stata concessa nemmeno una degna sepoltura. Sembra che l’oblio a cui erano state condannate queste persone in vita le abbia seguite anche nella morte.
E’ il graffito che anche io ho tentato di decifrare da adolescente quando il reparto ormai chiuso era diventato luogo da esplorare per noi giovani volterrani trasgressivi e curiosi di entrare a vedere quei luoghi così misteriosi e prima inaccessibili ma così pregni di linguaggi e voglia di comunicazione.
Poi indietro nel tempo…
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