
La parola test deriva dal latino “testum”, che significa vaso, ossia il vaso (reattivo) che serviva agli alchimisti per saggiare la presenza in un minerale di particelle di oro (razionale del reattivo). I test forniscono dati per individuare il focus del trattamento prescelto la relazione tra diagnosi e trattamento è stata per lungo tempo oggetto di discussione (Hayes et al. 1987). Autori di differente formazione sottolineano i pericoli insiti nel trattare un paziente non diagnosticato. Il rischio è di trovarsi, nel corso del trattamento, ad affrontare problemi più gravi di quelli preventivati, senza avere a disposizione strumenti, capacità e risorse adeguate. Ma allora in questo contesto a cosa servono i test? I test costituiscono un altro vertice di osservazione, riducono la probabilità che la patologia del paziente sia sottovalutata e aiutano a decidere quali elementi, nel corso della terapia, debbano essere affrontati immediatamente; il rischio altrimenti è una cronicizzazione della terapia stessa (Blank, 1965). L’utilizzo dei test rappresenta il tentativo di lavorare con dei dati oggettivi in ambito clinico e i test forniscono dati utilizzabili per: (Del Corno, Lang, 1997)
concorrere a formulare una diagnosi
stabilire l’indicazione/controindicazione al trattamento trattamento migliore per il paziente
individuare il focus del trattamento prescelto
valutare l’andamento di un trattamento o il suo esito
effettuare uno screening, (es. in studi di tipo epidemiologico)
Nel corso della diagnosi testologica la valutazione psicometrica è solo uno degli elementi che si devono considerare; gli altri elementi da tenere in conto sono rappresentati dal contenuto delle risposte, gli aspetti formali; le verbalizzazioni; le osservazioni sul comportamento del paziente al reattivo; le reazioni del clinico al paziente (non è possibile mantenere uno stile di conduzione uguale con tutti i pazienti. Alcuni pazienti inducono nel clinico vissuti che determinano la comparsa di difficoltà diagnostiche e possono condizionare la diagnosi stessa) (K.S. Pope, 1992 in “Psicologia clinica vol 2”). Nella pratica clinica, è di scarsa utilità adottare a priori un approccio psicometrico o uno clinico. Bisogna individuare in quale modo avvalersi di entrambi e/o comprendere quando la realtà del paziente richieda di privilegiare uno dei due. La decisione del clinico di chiedere una diagnosi testistica non è un’operazione di comune routine, ma una scelta precisa a cui possono essere legate motivazioni diverse. La diagnosi testologica non è sovrapponibile alla diagnosi psicologica, ma ne rappresenta un momento; è compito del clinico, quindi, integrare i dati che provengono da altre fonti (strumenti diversi, e professionisti differenti) e, attraverso un processo di sintesi, formulare una diagnosi del disturbo del paziente e le eventuali indicazioni o controindicazioni ai trattamenti.

I test in una situazione d’incertezza diagnostica possono rilevare, inoltre, ostacoli non percepiti che potrebbero manifestarsi in seguito nel trattamento, portando, quindi, a esiti negativi; valutano le risorse di personalità del paziente e gli aspetti deficitari, in modo da evitare sforzi terapeutici inutili; permettono il confronto con dati normativi; forniscono elementi utilizzabili con il paziente per fornirgli un feedback rispetto alla natura e all’ampiezza dei suoi problemi (Butcher, 1990). Il ricorso ai test ha, a sua volta, delle controindicazioni. Come per esempio, può indurre nel clinico la tendenza a basarsi troppo sui risultati dei test senza utilizzare il ragionamento clinico e negando possibili discrepanze, diventare un elemento di confusione, se il clinico coltiva l’illusione di ottenere dati più oggettivi. I test servono al paziente perché gli permettono, sia nel corso della somministrazione che nel corso della restituzione di riconoscere alcune modalità di funzionamento sue proprie in modo più concreto e definito. Lo aiutano a capire la natura delle difficoltà che incontra nella vita quotidiana, attraverso un processo di generalizzazione. I test diventano controindicati se il paziente ha bisogno di una presa in carico immediata o è in una situazione di emergenza; sono inutili quando il materiale emerge già dai colloqui e la diagnosi è chiara, in questo caso costituirebbero solo un inutile dispendio di tempo e di energia. Una delle prime questioni che si pongono gli psicologi, non abituati a somministrare test, riguarda la possibilità di avere un rifiuto da parte del paziente; in genere, però, nella pratica clinica è difficile incontrare un rifiuto categorico da parte del paziente a sottoporsi ai test, purché gli venga spiegato in modo chiaro ed adeguato il motivo della richiesta e a cosa servano. Certo, bisogna ammettere che non sempre è facile trovare le parole giuste per motivare l’invio e che si possono presentare difficoltà che sono intrinseche alla situazione in oggetto. Non si può partire dal presupposto che il paziente sia d’accordo con la proposta di diagnosi testologica.

L’ aspettativa del paziente, nella maggior parte dei casi, è che la situazione si risolva in tempi relativamente brevi: qualsiasi cosa si frappone tra la richiesta di aiuto e la guarigione, più o meno “magicamente” attesa, viene percepita come un ostacolo. Spesso il modello che ha in mente il paziente è molto simile a quello della consultazione medica; l’aspettativa è quella di parlare con il clinico (l’equivalente della visita) e di essere avviato immediatamente a un trattamento (la prescrizione). Dovere aspettare e scoprire che non sempre il clinico comprende immediatamente la situazione e sottoporsi al test, sono tappe che, spesso avvertite come indugi, possono causare sia ansia o aumentare il timore di essere affetti da un disturbo incurabile o sconosciuto. Il paziente, il più delle volte, non è convinto dei vantaggi che gli possono derivare dai test, è spaventato e preoccupato; l’idea che il paziente ha dei test oscilla tra la cartomanzia e i quiz. In ogni caso, il clinico deve avere a disposizione elementi per motivare al paziente la richiesta ed esserne, prima di tutto, egli stesso convinto. Solo in questo modo è possibile ottenere una sufficiente alleanza diagnostica. A questo riguardo dobbiamo distinguere tra alleanza terapeutica e alleanza diagnostica. Orefice nel 2002 definisce “l’alleanza diagnostica come il risultato di una posizione emotiva e cognitiva specifica del clinico, contraddistinta da una propria processualità e dalla sospensione di giudizio e di decisione. Nella alleanza diagnostica l’obiettivo è circoscritto e temporalmente definito”. Per alleanza terapeutica intendiamo invece: “il rapporto stabile e positivo tra terapeuta e paziente, che mette in grado quest’ultimo di impegnarsi produttivamente nel lavoro della terapia” (Zetzel, 1973). Durante la somministrazione di un test, è molto importante instaurare con il paziente una buona alleanza diagnostica; infatti, raramente il materiale che si ottiene dai test riflette un’effettiva povertà del paziente, non diagnosticata nel corso del colloquio. Il più delle volte la povertà manifestata è un indice di una mancata alleanza diagnostica. Infatti, uno dei principali problemi nella raccolta dei dati testistici, è quello di avere un rapporto con il paziente sufficientemente buono da permettere una corretta esecuzione del compito che gli viene proposto. Altri elementi che si devono tenere in considerazione e che possono influenzare il risultato dei test, sono nontest factors, essi sono tutti quegli elementi che, nel corso della diagnosi testologica, possono interferire con il risultato del paziente e che non sono causati dalle caratteristiche specifiche dello strumento utilizzato (Groth-Marnat, 1990).
Il test è ormai uno strumento indispensabile e insostituibile in molti ambiti (ospedali, prigioni, istituzioni di custodia, uffici pubblici) in quanto fornisce una serie di indicazioni che aiutano a prendere decisioni, a verificare e a programmare il lavoro. Esso, quindi, non viene considerato come una sostituto dello psicologo, che ha, invece, il doveroso compito di interpretarne i dati e di integrarli ad altre informazioni e indicazioni, acquisite attraverso diverse modalità di assessment (anamnesi, colloquio clinico, rating scales, ecc…). Gli psicologi clinici, soprattutto, sono consapevoli che ai test non si può chiedere ciò che non sono in grado di fornire, ma solo informazioni riguardanti, di volta in volta, aspetti specifici della personalità di quei soggetti che hanno le stesse caratteristiche del campione originario di standardizzazione. In questo momento nessuno psicologo, ben informato sulle potenzialità e sui limiti dei test, si affiderebbe a procedure di assessment e di diagnosi basate unicamente su rilevazioni psicometriche, ma ne integrerebbe validità e rilevanza attraverso le varie forme dell’osservazione e dell’analisi clinica.
I test, quindi, continuano a essere considerati strumenti scientifici e utili per raccogliere informazioni psicologiche che vanno, comunque, valutate all’interno di uno specifico quadro teorico di riferimento.
E’ ormai accertato il fatto che un singolo test, pur se correttamente usato, rischia di fornire informazioni parziali e potenzialmente inattendibili. L’impiego di batterie, composte da diversi reattivi e il riscontro dei risultati dei test con quelli ottenuti attraverso l’impiego di altri strumenti clinici (il colloquio, ma anche l’osservazione familiare, la raccolta dei dati amnestici ecc…), rappresentano una cautela indispensabile I test, infatti, non sono strumenti asettici, che possono essere impiegati in qualsiasi contesto. Il cosiddetto laboratory prescription testing, cioè l’uso dei test, come se fossero esami del sangue o radiografie, è alla base dell’inattendibilità di molte diagnosi testologiche. A questo proposito si verificano spesso delle diatribe fra psicologi e psichiatri sull’utilità dei test, dove spesso lo psicologo non riesce a esprimere comprensibilmente ciò che il test gli ha consentito di capire e lo psichiatra che non ha alcuna voglia di ascoltare pareri diversi dal proprio. Attualmente, infatti, si è ripreso a considerare l’importanza e la necessità di una ridefinizione dell’uso corretto dei test in modo da coniugare il progresso scientifico, l’esigenze di qualità della prestazione, i test quindi non dovrebbero mai rappresentare una scorciatoia conoscitiva, ma essere un strumento di ausilio e non di sostituzione della diagnosi psicologica.
Dott.ssa Sabrina Signorini