Psicodiagnosi 2

Il lavoro diagnostico è indicato come il luogo nel quale confluiscono gran parte delle conoscenze del professionista e le sue capacità di effettuare una diagnosi del funzionamento del paziente (diagnosi funzionale) e identificata come requisito professionale che definisce il ruolo e il compito dello psicologo clinico. Bisogna riconoscere, tuttavia, che, a parte alcune posizioni antidiagnostiche soprattutto ideologiche o eccessivamente affettivizzate, le critiche erano spesso rivolte allo scarso fondamento metodologico delle diverse procedure diagnostiche (Horwitz, 1996).

Le nuove metodiche prese in considerazione capovolgono questa prospettiva. Non è più il paziente che deve dimostrare la propria identità, bensì è il clinico che deve pianificare un trattamento su misura per il paziente, del quale è stato in grado di comprendere a fondo problemi, preoccupazioni, punti di forza e di debolezza, struttura difensiva e stile di relazione. Sul piano metodologico, questo modo di vedere le cose presuppone che lo psicologo clinico, nel momento in cui costruisce la diagnosi, riesca a collocarsi emotivamente e cognitivamente al di qua delle teorie psicogenetiche esistenti e delle tecniche terapeutiche che ne derivano, cioè non faccia lo psicoanalista, né il terapeuta sistemico né il terapeuta cognitivo ecc., bensì usi una teoria e una tecnica specifiche, che sono quelle del lavoro diagnostico; la situazione diagnostica, infatti, è caratterizzata dal fatto di essere una sorta di stato di tregua in cui ogni giudizio è sospeso, da parte sia del clinico che del paziente. La possibilità, che la consultazione diagnostica finisca senza l’indicazione di un trattamento, è un buon modello da prendere in esempio per capire cosa s’intende quando si sottolinea l’importanza di evitare scelte preordinate e intenzioni fuorvianti, sia da parte del clinico che del paziente. Sempre più frequentemente, infatti, è accaduto che i pazienti accettassero con benevolenza la proposta di un lavoro diagnostico, cioè di una ricognizione precedente a ogni indicazione di una nuova terapia; anche la possibilità di usare degli strumenti diversi dal solo colloquio clinico è stata accolta bene (Lang, Orefice, 1995). La consultazione diagnostica è, infatti, l’occasione per esporre le proprie paure, le eventuali delusioni per i precedenti tentativi terapeutici andati a vuoto. In genere, pochi sono gli psicoterapeuti che sanno e amano fare diagnosi; se un paziente si rivolge a loro di solito dedicano qualche seduta iniziale a verificare la situazione di malessere presentata dal paziente stesso. Accade, anche, che qualche psicoterapeuta si limiti a dire di non potere fare nulla per il paziente e lo congedi senza alcun altro suggerimento. Oggi, infatti, sempre più spesso, l’intervento dello psicoterapeuta viene richiesto dopo una consultazione diagnostica condotta, insieme al paziente, da un altro professionista, che assume il ruolo di inviante. Da qui deriva, quindi, la distinzione tra psicologia clinica e psicoterapia: lo psicologo clinico, quando svolge la propria attività professionale, fa delle consultazioni diagnostiche e si occupa di diagnosi funzionale; il metodo che segue non ha nulla a che fare con il metodo di qualunque trattamento psicoterapeutico, mentre lo psicoterapeuta svolge un lavoro che ha un proprio razionale specifico che varia in rapporto al modello di disturbo psichico privilegiato dal particolare tipo di terapia (M. Lang, 1996).

“Le maggiori probabilità di successo terapeutico sono legate alla capacità di capire quale trattamento, fatto da chi, è più efficace per questo individuo, con questo specifico problema, in questo set di circostanze”.

G.L. Paul 1967

La compliance, definita anche aderenza, è il grado in cui un paziente segue le raccomandazioni cliniche del medico e/o dello psicologo. Esempi di compliance possono essere il rispetto degli appuntamenti, l’inizio e il completamento del programma di terapia e l’esecuzione dei cambiamenti indicati a livello comportamentale. Il rapporto con il paziente è il più importante fattore nel campo della compliance. Quando il clinico e il paziente hanno priorità e opinioni diverse, diversi stili di comunicazione e diverse aspettative mediche, la compliance del paziente diminuisce. Questo è causato, in genere, dall’atteggiamento del clinico che può essere avvertito come scostante e poco empatico o ancora dal fatto che il clinico chieda informazioni senza dare risposte e non spieghi la diagnosi o la causa della sintomatologia in atto. Le strategie consigliate per migliorare la compliance prevedono che si chieda direttamente ai pazienti di descrivere che cosa credono che non vada in loro, che cosa ritengono che debba essere fatto e che cosa capiscono di ciò che il clinico ritiene debba essere fatto e quali credono siano i rischi e i benefici del trattamento stabilito. Dato che il numero di caratteristiche del paziente, del terapeuta e del trattamento che possono incidere sull’indicazione è teoricamente illimitato (Arkowitz, 1992), bisogna delimitare il campo, individuando solo alcune tra le variabili relative al paziente, che costituiscono un indice attendibile nel predire le risposte ai singoli trattamenti (Beutler, Clarkin, 1990). Il presupposto è che si possono utilizzare, come markers per l’indicazione ai trattamenti, misure psicometricamente stabili di caratteristiche del paziente, ritenute rilevanti per il trattamento.

Gli psicologici, per anni, hanno creduto che la misurazione in psicologia fosse equivalente alla misurazione in altre scienze, come per esempio la fisica. La difficoltà di pervenire a misurazioni che fossero valide e attendibili e al tempo stesso specifiche e generalizzabili, ha portato, nel corso degli anni, alla comparsa di uno scontro tra lobby dei clinici e la lobby degli accademici (Holt, 1968). Mentre i primi sono indirizzati a trovare la risposta più efficace per ridurre la sofferenza del paziente, i secondi sono concentrati sul rispetto dei vincoli posti da una corretta metodologia della ricerca, che non è sempre compatibile con le necessità nell’hic et nunc della pratica clinica. Il conflitto non è stato utile perché ha causato, un irrigidimento delle due posizioni, con la perdita di vista del problema della misurazione. Questo ha portato, quindi, un utilizzo parziale e settoriale dei diversi strumenti, alcuni dei quali sono stati messi al bando dai ricercatori, mentre continuano a essere usati dai clinici in quanto strumenti in grado di fornire dati indispensabili per la comprensione del paziente. Le critiche riguardavano, soprattutto, i sistemi di siglatura, molto complicati, sulla soggettività dello scoring, la scarsa utilità predittiva e su un’inadeguata o inconsistente validità; inoltre, veniva criticata anche l’eccessiva quantità di tempo necessaria per apprendere l’uso di questi test rispetto invece alla maggior validità empirica di molti test oggettivi (MMPI, PAI, ecc..). Le critiche in genere provenivano dal mondo accademico, in cui questi test venivano sempre meno usati (Reynolds, Sundberg, 1976).

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Dott.ssa Sabrina Signorini

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