Il dramma di Narciso tra il linguaggio del mito e il linguaggio della scienza.

“Narciso si annulla nella vertigine cosmica
dove nel più profondo
canta
la sirena fredda e dionisiaca della sua stessa immagine.
Il corpo di Narciso si svuota e si perde nell’abisso del suo riflesso,
come la clessidra che non verrà capovolta
…Narciso tu sei così immobile che si direbbe che tu dorma”


Salvador Dalì

E’ questa la prima immagine che visualizzo quando parlo del mito di Narciso. La visione e l’interpretazione proposta dalla dottoressa Mascolo suscita in me una serie di riflessioni sul mito, sulla patologia narcisitica e sul linguaggio utilizzato.

L’opera sopra citata è di Salvador Dalì (1937) e si trova alla Tate Gallery di Londra, affronta il tema del doppio, della mutazione e dell’ambiguità visiva. Il dipinto mostra la figura di Narciso (non come un eroe) accovacciato con la testa appoggiata sul ginocchio mentre una parte del corpo è immersa nell’acqua, la testa è incassata e non si vede il viso e sulla parte posteriore del collo si apre una specie di voragine e ne escono dei filamenti simili a capelli come se qualcosa abbandonasse il suo corpo (la stessa vita?). A destra il corpo si trasforma ed assume le sembianze di un’enorme mano che esce dal terreno e regge tra le dita un uovo. L’uovo non è integro, e dalle crepe esce il fiore di Narciso: la metamorfosi è compiuta e rinasce la vita dove ormai non ci si aspetta più di trovarla. Secondo Dalì, quindi, il narcisismo è una condizione che conduce prima all’immobilità e successivamente alla morte. Questo riprende il mito di Narciso che si uccide in quanto incapace di incontrare se stesso attraverso gli altri. Per Napolitani la mente è un mezzo che consente all’uomo di conoscersi attraverso la relazione con l’altro. Narciso non ha potuto farlo e quindi è come se non fosse mai nato, ma ha semplicemente eseguito l’intenzionamento materno: il destino della madre di essere  sola, e così anche lui condannato all’isolamento per una storia familiare immutabile.

Certe situazioni di intenzionamenti familiari le incontro ogni volta che partecipo ai gruppi di psicoanalisi multifamiliare al Centro di Salute Mentale dove tra l’altro ho svolto il tirocinio post laurea.  In quei momenti mi trovo ‘fra’ le esperienze dei pazienti e le mie, risuona dentro me una liason comune, una storia umana che ci accomuna ma che poi ha fatto deviazioni e intrapreso percorsi diversi. Le esperienze vengono raccontate attraverso il linguaggio ma anche attraverso altre forme comunicative non verbali e finanche non intenzionali. Partiamo dal presupposto che il linguaggio è una capacità tipica dell’essere umano di esprimersi attraverso suoni articolati che servono ad identificare immagini, o simboli utilizzando delle convenzioni implicite che possono variare nel tempo e nello spazio. Per ‘parlare’ serve l’intenzione di farlo, allora si scelgono le parole per esprimere un concetto con l’obiettivo di essere capiti dall’altro. Vi è poi un’altra forma di comunicazione che non è intenzionale e riguarda l’espressione del volto, la postura, i gesti e la distanza tenuta di fronte all’interlocutore. E allora “una specificità dell’esperienza analitica, dal nostro punto di vista gruppoanalitico, consiste proprio nell’essere quello spazio specificatamente deputato a ri-guardare, a fare meta esperienza della nostra condizione normale, quella dell’essere ‘fra’ le cose.”

E quindi il nostro essere ‘tra’ deriva dalla mia posizione all’interno del gruppo oppure da una mia visione delle narrazioni? Ho forse sviluppato una capacità di ri-leggere le storie, tenendo presente la storia familiare e con essa, quelle che Napolitani chiama ‘gruppalità interne’, che ognuno si porta dentro come frutto di una storia che si ripropone, che difende una struttura consolidata nel tempo dove la libertà di ‘essere’, a volte, può solo diventare follia?

E quindi, quando parliamo di incapacità di svincolo dalla famiglia si tratta di un’incapacità familiare e non solo del singolo individuo; quando un componente tenta di ribellarsi, la famiglia mette in atto dei meccanismi di difesa per mantenere il rigido schema ormai consolidato. Durante i Gruppi di Psicoanalisi MultiFamiliare (GPMF) le storie narrate hanno origini antiche che affondano nelle trame della storia familiare.  Sovente i familiari si trovano a parlare di loro stessi, ed è proprio attraverso la possibilità di parlare del loro malessere, che si rende possibile esorcizzare il ruolo del malato e la responsabilità della malattia, da individuale, diventa familiare e poi sociale.

I GPMF sono numerosi, anche 40 persone fra pazienti familiari e co-conduttori, il clima emotivo è quasi sempre abilitatore, anche quando le tematiche portate in gruppo sono decisamente di forte spessore emotivo, il rispecchiamento e i transfert multipli permettono l’emergere della rabbia e della disperazione e una riformulazione di certi eventi attraverso esperienze comuni. Anche io mi sono trovata coinvolta emotivamente e mi sono rispecchiata in alcune dinamiche familiari: ho dovuto quindi fare i conti con la mia famiglia interiore (gruppalità interne per Napolitani) e rimettere in gioco le mie dinamiche personali. Questo mi ha permesso di crescere e chiarire alcuni eventi del mio passato e rivisitare la mia famiglia interiore secondo l’assunto degli “altri in noi” e anche di ‘noi negli altri’ e ‘noi in noi’.

Figura 2 circulo celeste elaborazione più complessa del circulo verde di G. Badaracco.

C’è stato un gruppo in particolare che mi ha molto colpito per la sua peculiarità: a maggio 2017 sono venuti in visita dalla Svezia oltre trenta operatori della salute mentale, infermieri medici e psicoterapeuti a visitare i servizi della Salute Mentale dell’Asl RM5. Quindici di loro hanno chiesto di partecipare al GPMF come osservatori, non conoscendo il metodo e il suo funzionamento e oltretutto non credendo nella possibilità di poter gestire un gruppo così numeroso composto da pazienti e familiari.

Tutti avevano una formazione di tipo cognitivista ed erano molto curiosi di assistere alle dinamiche. Abbiamo così portato la richiesta ai partecipanti del gruppo che hanno accolto la visita con entusiasmo.

Il gruppo è stato spostato nella sala riunioni della sede centrale del distretto sanitario, visto il numero elevato dei componenti. Era un venerdì mattina alle 10.00 come al solito, solo eravamo in un luogo diverso. Le famiglie sono arrivate quasi tutte puntuali, eravamo tutti emozionati ma anche curiosi di confrontarci con una realtà diversa dalla nostra. Abbiamo preso posto e dopo i saluti e i convenevoli ci siamo accomodati al meglio all’interno del nuovo setting.  La cosa stupefacente è che nonostante quindici estranei il clima nel gruppo dopo un’iniziale diffidenza è stato lo stesso. Il primo argomento urgente da trattare è stato il ricovero coatto di un paziente: il sintomo “psichiatrico”, la crisi, all’interno del gruppo può essere risignificato a partire dalle emozioni che lo hanno generato. I genitori riportavano il vissuto di essersi sentiti travolti dalla crisi acuta del figlio e del suo ricovero in SPDC.  Siamo partiti da una sintomatologia che sembrava essere, fino a quel momento, non solo priva di senso, ma soprattutto avulsa da qualsiasi significato di natura relazionale all’interno di quello specifico sistema familiare. Il gruppo è riuscito, in un primo momento, a contenere quell’ “assenza di senso” per poi muoversi attivamente verso una possibile ri-significazione di quanto riportato, lontana da una mera descrizione di sintomi.

Il racconto dell’episodio ricco di dettagli, si soffermava sulla solitudine vissuta dalla coppia genitoriale e la vergogna nei confronti dei vicini. Inoltre, incredulità sulla ricaduta del figlio che sembrava invece aver raggiunto una sua autonomia e dei miglioramenti rispetto al suo disturbo. Hanno raccontato di come i parenti, gli amici si erano sempre più allontanati nel corso del tempo. La madre piangeva, era passato un po’ di tempo dall’evento e il giovane era stato dimesso ma “mio figlio è irriconoscibile, adesso è imbottito di farmaci e non sappiamo come comportarci, dorme di giorno e sta sveglio di notte…siamo da soli. Non so, forse abbiamo sbagliato…”.

La funzione di “holding” del gruppo viene messa alla prova, ma ha trovato subito una rispondenza attivando il rispecchiamento con altri familiari che hanno vissuto la stessa esperienza sviluppando interdipendenze positive mirate ad accogliere l’angoscia e il dolore dei genitori ed emarginare quel senso di solitudine che avvolgeva la famiglia. Nel contesto gruppale l’angoscia, la paura e la rabbia hanno avuto la possibilità di uscire e trovare una rielaborazione all’episodio e nuove energie per andare a casa ad occuparsi del figlio senza più sentirsi da soli.

Dopo aver parlato di questo, un altro papà che ha percepito il clima positivo e abilitatore ha espresso il suo ringraziamento al gruppo per avere imparato a parlare delle sue emozioni, dei suoi sentimenti e anche del suo vissuto passato che non aveva mai condiviso con nessuno, neanche con la moglie e soprattutto per essere riuscito ad uscire da un isolamento emotivo che lo aveva accompagnato da tutta la vita. In questo clima emotivo abilitatore ha parlato anche una nuova famiglia (composta da madre e figlio di 20 anni uscito da una comunità terapeutica). Era il secondo gruppo a cui partecipavano e nel primo incontro era emersa una grande conflittualità fra i due che sono gli unici componenti del nucleo familiare. Hanno ringraziato per l’ascolto e l’aiuto ricevuto nel primo incontro e detto che essere riusciti a “litigare” e quindi far emergere la rabbia in un contesto protetto ha fatto sì che poi a casa siano riusciti a parlare senza “gridarsi addosso”; hanno fatto tesoro dei punti di vista degli altri e adottato dinamiche comunicative diverse riuscendo a trovare dei punti di incontro. Erano così grati al gruppo che al temine hanno comprato delle bibite e degli snack da condividere con tutti i partecipanti. Il gesto conclusivo ha fatto da coronamento ad un gruppo intenso e ricco di interdipendenze.  Durante il gruppo è stata fatta una sommaria traduzione in inglese delle ‘conversazioni’ intercorse e, nonostante le interruzioni, il clima nel gruppo è stato particolarmente carico di emotività espressa.

Durante il post gruppo abbiamo condiviso le riflessioni in merito e i nostri colleghi svedesi sono rimasti stupiti della partecipazione, della capacità di parlare uno alla volta e del rispetto reciproco fra tutti i partecipanti. Increduli di fronte a tanta carica emotiva e al clima abilitatore percepito anche da loro che non comprendevano la lingua.

E’ pensando a questa esperienza che ho riflettuto sul linguaggio e sulla comunicazione e l’importanza dell’espressione emotiva come fattore di cura.

Vorrei condividere una canzone scritta da un paziente e dalla sorella. Luca frequenta il gruppo con la sua famiglia da quasi un anno; sempre presenti i genitori con il figlio di 40 anni e sono venute a conoscerci anche le due sorelle, entrambe con vocazioni artistiche. Ci hanno regalato emozioni intense con i loro racconti. Alla fine di un gruppo abbiamo visto il video e ascoltato tutti insieme la canzone di cui riporto il testo, citandolo come espressione emotiva artistica.

Dott.ssa Sabrina Signorini

“Maledetta bellezza”

Maledetta bellezza

E accidenti agli specchi

Non ti ho visto mai bello così

È un aprile lontano che ti lascia

non sei mai stato triste così

 e tuo padre non ha dolori

 e tua madre non lo sa

Apri gli occhi sorella mia

e l’inverno passerà

Maledetto il mio male che mi prende i capelli

Non sei stato mai bello così

Maledetto il mio male che mi prende la vita

Non sei stato mai triste così

Maledetta bellezza e accidenti agli specchi

Non ti ho visto mai bella così

Io non ho più paura la mia rabbia è finita

Non ti ho visto mai sicura così

Il silenzio non ha colori

Sfugge via se ne va

Apri gli occhi fratello mio

Il mio affanno finirà

Maledetto il mio male che mi prende i capelli

Non sei stato mai bello così

Maledetto il mio male

che mi prende la vita

Non sei stato mai triste così

E tuo padre non ha dolori

E tua madre non lo sa

Apri il cuore amore mio

La mia notte

passerà

Maledetta bellezza

Passerà

Maledetto il mio male

passerà

Testo: Luca Volpe e Gianluca Vaccaro

Musica: Ilenia e Luca Volpe

BIBLIOGRAFIA

Il dramma di Narciso tra il linguaggio del mito e il linguaggio della scienza.