La terapia familiare

La famiglia è certamente uno degli archetipi più potenti, sia a livello individuale che collettivo. Nella cultura occidentale una famiglia spesso è definita nel dizionario come: “Nucleo sociale rappresentato da due o più individui che vivono nella stessa abitazione e, di norma, sono legati tra loro col vincolo del matrimonio o da rapporti di parentela o di affinità”.

Lévi-Strauss (1967), antropologo, invece definisce la famiglia come “l’unione durevole, socialmente approvata, di un uomo e di una donna e dei loro figli”: intesa come una forma sociale primaria.

Voglio citare uno psicologo studioso della famiglia: Salvador Minuchin che intraprende lo studio e l’analisi della famiglia da un punto di vista strutturale, concependo la famiglia come un sistema caratterizzato da una struttura ben definita: “l’invisibile insieme di richieste funzionali che determina i modi in cui i componenti della famiglia interagiscono”. Minuchin, conosciuto come padre della terapia familiare, ha definito la stessa terapia della famiglia come una vera e propria forma d’arte: “L’arte di entrare nel labirinto di quella famiglia per farvi comparire un filo d’Arianna” (1982).

Murray Bowen è fautore del processo di differenziazione, ossia quel processo attraverso cui ogni membro della famiglia arriva a esprimere sé stesso, le proprie idee e credenze senza farsi condizionare dalle pressioni emotive della famiglia.

La famiglia, intesa come il sistema vivente di riferimento principale nell’esperienza emotiva di una persona, è il primo contesto esperienziale all’interno del quale i sintomi, le malattie, i problemi assumono una funzione precisa per il funzionamento relazionale del gruppo di persone che ne fanno parte. I conflitti che tendono a disgregare il sistema-famiglia creano una tensione emotiva che di solito viene vissuta in termini drammatici dal soggetto portatore del sintomo; egli si fa carico, attraverso la manifestazione dei sintomi, di distogliere i membri della famiglia dall’affrontare in modo manifesto le proprie difficoltà di relazione, accentrando l’attenzione su di sé. Il sintomo ha quindi una doppia valenza: segnala alla famiglia l’esistenza di un disagio e, nello stesso tempo, rende innocuo il suo potere distruttivo, accentrando su di sé tutte le preoccupazioni degli altri membri.

 

De Chirico “La famiglia” 1926

Gregory Bateson (1972), aveva compreso come la mente funzionante che dà il via a sane relazioni, non potesse essere oggetto del solo individuo ma fosse qualcosa di più vasto. Studiando le tribù indigene, Bateson comprende come nasce la creazione indotta di una mente gruppale che permette relazioni più sane e un’identificazione collettiva……”La teoria  del doppio legame” elaborata da Bateson nel 1956 è il frutto di un pensiero sistemico relazionale. Il doppio legame descrive una situazione nella quale, tra due persone unite da un rapporto rilevante a livello emotivo, la comunicazione tra le due presenta una discrepanza tra il livello del discorso esplicito e quello metacomunicativo, non verbale (ad esempio, il tono di voce, gli atteggiamenti, i gesti), e la situazione è tale per cui chi riceve il messaggio non può decidere quale dei due livelli, contraddittori, è più come valido, e neppure segnalare esplicitamente l’incongruenza. La terapia familiare si distanza progressivamente da un concetto rigido di diade, scegliendo una ottica triadica (Minuchin, 1976) e multigenerazionale, la triade, formata da padre, madre e bambino diviene il criterio con il quale analizzare come la famiglia funzioni, insieme a un’idea di famiglia come sistema in evoluzione nel tempo e formato da più sistemi generazionali che passano attraverso il suo funzionamento. Adottare un punto di vista sistemico-relazionale permette alla psicologia di orientarsi pertanto verso un modello di uomo-paziente rinnovato, mettendo in dubbio il punto di vista monadico di una persona malata nel suo “interno”, cambiandola con un’immagine di essere sociale, il cui comportamento può essere compreso solamente tramite lo studio del funzionamento e dell’organizzazione del sistema di relazioni in cui si trova…..” (tratto da Sentieri di cura).

Negli anni ‘70 nasce la psicogenealogia altresì denominata Psicoterapia Trans-generazionale in quanto studia le influenze dell’albero genealogico sulla vita di una persona, in particolare sui suoi sintomi, sulle difficoltà relazionali. La dedica della Schützenberger al testo che apre questo filone clinico, “La sindrome degli antenati” – Psicoterapia transgenerazionale e i legami nascosti nell’albero genealogico”. “I lutti non elaborati, le lacrime non versate, i segreti di famiglia, le identificazioni incoscienti e le lealtà familiari invisibili si trasferiscono ai figli e ai loro discendenti. Ciò che non viene espresso a parole, viene espresso con la sofferenza.” A. Schützenberger.

 

Botero Scena di famiglia 1969

Lo studio della famiglia e delle relazioni fra i suoi componenti è un tema di grande fascino in particolare in merito agli effetti che le relazioni fra i membri avranno sullo psichismo di ciascun individuo. Ognuno viene al mondo all’interno di trame psicologiche di significato costituite attraverso le generazioni familiari. Il nuovo nato è il frutto di un pensiero precedente al parto:  si fonda, contemporaneamente, sui legami tra generazioni e sui legami tra contemporanei. Questo significa che la vita psichica si trasmette, passa da individuo a individuo e viaggia di generazione in generazione.

René Kaës (1993) l’ha definita come una “produzione intersoggettiva della psiche”, ossia un processo di circolazione e trasmissione di materia psichica che annoda soggettività e intersoggettività e che costituisce la base della formazione della vita psichica individuale e del suo funzionamento inconscio. Allo stesso modo, l’appartenenza del soggetto a diversi insiemi (gruppi, istituzioni, masse, famiglia) determina una pluralità di spazi psichici da cui l’individuo attinge per la formazione del proprio psichismo. La ricerca e gli studi sul tema della trasmissione familiare della vita psichica hanno gettato luce sulle modalità benigne o patologiche attraverso cui si realizzano tali processi. Kaës ha notato che, così come il narcisismo del bambino si poggia sui desideri irrealizzati dei genitori, allo stesso modo la trasmissione transgenerazionale della vita psichica di fonda sul concetto di negativo, ovvero su tutto ciò che negli accadimenti familiari generazionali è rimasto incistato, bloccato, difettoso. Il “negativo” è ciò che nella storia familiare non può essere narrato, raccontato e trasformato psichicamente in senso maturativo. Esso è ciò che, avendo un significato bruto o bizzarro, non può essere trasfuso da una generazione ad un’altra oppure viene trasportato in maniera difettosa, determinando sofferenza e patologia mentale nell’individuo e nella famiglia. Nella trasmissione transgenerazionale del negativo i vissuti trasmessi sono impensabili, non rappresentabili, e indicibili: diventano pertanto segreti, non detti, pseudo-verità. Questi elementi psichici non dicibili sono emotivamente carichi e gravano sulle generazioni familiari determinando sofferenza psichica che i genitori chiedono ai figli di risolvere in un circolo vizioso che non ha fine, almeno fin quando tali contenuti emergono sul piano della coscienza e possono essere elaborati attraverso la creazione di nuovi significati, di spazi psichici generativi in cui è possibile dare senso e risignificare la sofferenza tramandata e di cui si è stati per tanto tempo inconsapevolmente succubi.

Se già Freud (1921) evidenziava la dimensione sociale e relazionale dello psichismo umano, più recentemente, Napolitani estende la concezione della mente umana e del suo funzionamento ponendo in esso fondamenta intersoggettivi. Il meccanismo psicologico dell’identificazione diventa centrale nella formazione della identità individuale: la relazionalità del nucleo familiare e successivamente della più ampia rete sociale viene incorporata nel bambino formando il suo mondo interno. Freud stesso, secondo Napolitani, “getta le premesse per il superamento della dicotomia tra individuale e sociale attraverso la formalizzazione di quel processo di identificazione per il quale la cultura, nei suoi significati intenzionali e prescrittivi, si insedia stabilmente nel cosiddetto “mondo interno” dell’individuo” (Napolitani, 1987).

Diego Napolitani teorizza il concetto di gruppalità interna, intesa come “l’esito della internalizzazione, attraverso processi identificatori, dell’insieme di relazioni delle quali l’individuo, sin dalla nascita, entra a far parte come l’elemento personale di una circolarità di significazioni e di intenzionamenti” (Napolitani & Maggiolini, 1989). Gli oggetti internalizzati e le relazioni fra loro costituiscono la cosiddetta identità identificatoria – ovvero l’immagine di sé costruita attraverso gli insegnamenti tramandati dai soggetti del – nucleo antropologico (o matrice culturale) di cui il bambino fa parte (idem) – che nel corso dello sviluppo andrà a confliggere e, dunque, ad essere riconcepita a partire dal nucleo più autentico e creativo di sé (autós): proprio la possibilità di trasgredire i modelli culturali tramandati e innestati nella propria identità identificatoria consente all’individuo di aprirsi al mondo attraverso la parte più autentica di sé, pena la sofferenza psichica che finisce per configurarsi in psicopatologia. Per tale teoria: ogni individuo porta nel proprio patrimonio genetico la presenza di chi lo ha generato così come nel fondamento della propria identità culturale e comportamentale. Questo crea il suo esistere. L’ambiente originario ovvero il nostro passato, sia remoto che recente è strettamente correlato all’IDEM ovvero: l’area dei nuclei identitari, “quel complesso di esperienze sedimentate della storia di ciascun essere umano, dalla nascita al momento presente, il mondo delle tradizioni, l’insieme delle esperienze relazionali, affettive, intellettive sedimentate nella storia di ciascuno di noi”. L’idem rappresenta “la mia tradizione e la mia cultura” (Napolitani), ha come fondamento l’ordine famigliare internalizzato che ha sottintesa una funzione: quella di conformare il nuovo nato alle intenzionalità e aspettative dell’ambiente. Uscire dal dominio di intenzionamenti condizionanti è possibile grazie alla dimensione riflessiva, all’autocoscienza, a quel dispositivo auto-ri-organizzativo individuale che si manifesta nella produzione di simboli (autòs) grazie al quale si possono coniugare passato e futuro: “il luogo dove il passato viene individuato, la propria storia è riguardata (…) il luogo dove nasce il nostro essere progetti”(D. Napolitani), sui nostri possibili incontri, messi in luce grazie alla comunicazione simbolica, rispetto ad un mondo altrimenti ed oltremodo opaco. Per Napolitani quindi i nostri gruppi interni (idem) vengono ininterrottamente riconsiderati dalla componente autentica (autòs) dello stesso individuo e questa riconsiderazione/rivisitazione implica un depotenziamento di significazioni tradizionali affettive e l’emergere della propria “auto-nomia”. La soggettività si organizza grazie a un processo progressivo e continuo di rignisificazione dei codici culturali ereditati che consente di distinguere, nelle relazioni che avvengono con l’esterno e all’interno del proprio Sé, tra parti ereditate e parti simbolizzate: codici trasformati grazie alla capacità generativa del soggetto. A questo punto è necessario anche introdurre un nuovo termine: I’Autopoiesi. Il termine autopoiesi è stato coniato nel 1980 da Humberto Maturana (dal greco auto e creazione). Un sistema autopoietico è quello che ridefinisce continuamente sé stesso e si sostiene o riproduce dal proprio interno.

Alberto Sughi moglie e marito 1967

Alberto Sughi (pittore italiano scomparso nel 2012) scriveva: Il lavoro del pittore non finisce col suo quadro: finisce negli occhi di chi lo guarda.

 


 

Dott.ssa Signorini Sabrina

 

BIBLIOGRAFIA

  • Schutzenberger, A. (2004). La sindrome degli antenati. Roma, Di Renzo Editore.
  • Bateson, G. (1977). Verso un’ecologia della mente. Milano, Adelphi.
  • Bowen, M. (1980). Dalla famiglia all’individuo. La differenziazione del sé nel sistema familiare. Roma, Astrolabio Ubaldini.
  • Levi-Strauss C. (1967) Le strutture elementari della parentela Feltrinelli 1984.
  • Minuchin, S., Fishman H., C., (1982), Guida alle tecniche di terapia della famiglia, Astrolabio, Roma.
  • Kaes R. (2007) Un singolare plurale. Borla, Roma.
  • Kaes R (2007) intervista di Luciana Sica su Repubblica del 1/12/2007
  • Kaës, R., Faimberg, H., Enriquez, M., Baranes, J.-J. (1993). Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Roma, Borla.
  • Freud, S. (1921). Massenpsychologie und Ich-Analyse; trad. It. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1986, vol. 9.
  • Napolitani, D., Maggiolini, A. (1989). Gruppalità interna. Rivista italiana di gruppoanalisi, vol. IV, n. 1-2.
  • Napolitani, D. (1987). Individualità e gruppalità, Boringhieri, Torino, 1987.
  • https://www.robertamessinapsi.com/2021/04/09/la-trasmissione-psichica-tra-generazioni/

 

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